Appuntamento con Gino Roncaglia in Argentina, tra telematica e tradizioni letterarie

16.03.2017 20:10

Quando è nata la passione per Borges e quali sono le tue opere preferite?

 

Ho cominciato a leggere Borges verso i quattordici anni: mio padre era professore di filologia romanza, mia madre insegnava letteratura in una scuola superiore, tutti e due leggevano moltissimo, e Borges era ampiamente presente nella libreria di casa. In particolare, ricordo una bellissima prima edizione italiana Einaudi de La Biblioteca di Babele, che ho letto diverse volte. E il racconto La Biblioteca di Babele era incluso in una delle antologie curate da Fruttero e Lucentini (per l’esattezza, Il secondo libro della fantascienza), uno dei testi che mi hanno avvicinato a un genere letterario – la fantascienza – a cui sono stato, e rimango, molto legato.

Borges è stato anche l’autore che mi ha avvicinato alla letteratura sudamericana: fra i sedici e i vent’anni ne ho letto moltissima (la mia tesina di maturità era su García Márquez), compresi molti autori argentini: oltre a Borges, Sabato, Bioy Casares, Cortázar, Wilcock, Silvina Ocampo… Sopra eroi e tombe di Sabato è tra i miei cinque o sei libri preferiti, un testo davvero straordinario.

A diciannove anni ho cominciato a scrivere qualche articolo per il supplemento culturale di un quotidiano (l’Avanti!, che all’epoca era ancora di nobile tradizione). Uno dei primissimi fu su Borges: articolo breve, ma fu ripreso nella bibliografia degli scritti italiani su Borges; ne fui assai orgoglioso, anche perché quel fascicolo – un centinaio di pagine poco più che ciclostilate – fu consegnato a Borges in occasione di una sua conferenza all’Istituto Italo-latinoamericano (l’unica occasione in cui ho potuto ascoltarlo dal vivo…). Oggi il settore Borges della libreria occupa un paio di scaffali, e continua ad essere uno dei più frequentati.
 

La categoria del fantastico è presente nelle opere letterarie di ogni tempo e inoltre molto praticata tra gli autori argentini. Ci sono dei racconti o romanzi fantastici argentini che hai apprezzato? In generale, quali espetti riscatti nelle narrazioni fantastiche? e per quanto riguarda la fantascienza, quali sono gli autori attuali che segui con maggior entusiasmo?

 

Ho scoperto la fantascienza a nove anni, spettatore totalmente affascinato di 2001 Odissea nello Spazio (credo di aver visto quel film una ventina di volte, ma ricordo perfettamente la prima volta che lo vidi, accompagnato da mia madre, in un cinema che purtroppo non esiste più da tempo). A dodici anni scoprii Urania, la collana di fantascienza della Mondadori diretta da Fruttero e Lucentini, e qualche anno dopo Galassia, che era considerata più sperimentale e letteraria e all’epoca era diretta da un giovanissimo Ugo Malaguti. Da allora ho sempre letto fantascienza: all’inizio soprattutto la fantascienza dell’età dell’oro (Asimov, Clarke, Simak…) poi – ripercorrendo con qualche decennio di ritardo l’evoluzione del genere – quella sociologica, la new wave…

Oggi la fantascienza è un genere letterario molto più complesso e sfaccettato, e – contrariamente a quanto potrebbe pensare chi non lo conosce – con una fortissima presenza femminile: negli ultimi sei anni, il massimo riconoscimento del settore, il premio Hugo, è andato quattro volte ad autrici donne (incidentalmente, si tratta di quattro fra le mie autrici preferite: Connie Willis, Jo Walton, Ann Leckie e N.K. Jemisin).

Ogni tanto mi capita anche di scrivere di fantascienza: uno degli ultimi articoli che ho scritto è dedicato all’influsso di Frankenstein sulla SF, e uscirà l’anno prossimo in un’antologia americana in occasione del 200° anniversario del romanzo di Mary Shelley.
 

È nota la tua passione e competenza per le biblioteche. In Italia, quali sono le tue preferite? A tuo parere, quali funzioni sono destinate a svolgere le biblioteche in futuro? Come si possono attrezzare per le nuove sfide della società attuale?

 

Da ragazzo avevo una vera infatuazione per le biblioteche: all’epoca non c’erano biblioteche per bambini, e sotto i quattordici anni trascinavo la ragazza che mi ‘sorvegliava’ il pomeriggio nella libreria Remainders di Piazza S. Silvestro, dove era possibile sedersi a leggere nell’isola di poltrone centrali; dai quattrodici anni era possibile accedere alla biblioteca Baldini, e dai sedici alla Nazionale, dove ho passato innumerevoli giornate. Al liceo c’erano due biblioteche separate: una, assai più grande e fornita, riservata ai docenti; l’altra, una stanzetta tristissima e con pochi libri, per gli studenti. L’unificazione delle due biblioteche e la loro apertura agli studenti durante il pomeriggio fu una delle mie prime battaglie politiche: ci riuscimmo, e divenni molto amico dell’insegnante in pensione che curava acquisti e schedature: inizialmente si era opposta strenuamente all’apertura agli studenti, ma quando cominciammo a organizzare in biblioteca una serie di seminari autogestiti – io ne seguivo uno di filosofia – cambiò radicalmente idea e ci aiutò moltissimo. Oggi, per fortuna, l’idea di una biblioteca scolastica che non sia aperta agli studenti non verrebbe in mente a nessuno.

Per la tesi di laurea ho lavorato soprattutto in Casanatense; proprio in occasione della tesi di laurea – e dopo una sorta di serratissimo esame-interrogatorio – ho avuto la mia prima tessera della Vaticana: inizialmente limitata a dieci accessi, poi permanente (e mi sembrò di aver conquistato un traguardo fra i più difficili e ambiti). Poco prima della laurea, nel 1983, entrai come documentarista bibliotecario alla Camera dei Deputati. Fui però assegnato all’archivio storico, non alla biblioteca, e quindi dovetti farmi una cultura anche in ambito archivistico. Per la tesi di dottorato ho invece lavorato moltissimo in biblioteche tedesche, in particolare a Francoforte e Göttingen.

Oggi mi occupo spesso e volentieri di biblioteche dal punto di vista professionale, ma purtroppo riesco a frequentarle più raramente; un po’ anche perché la mia casa è diventata sempre più simile a una biblioteca. Giorgio Bassani scriveva che una collezione personale di libri può dirsi davvero biblioteca personale solo quando supera i ventimila volumi: io dovrei ormai avvicinarmi ai trentamila, sparsi in due case e all’università (dove una stanza abbastanza ampia e dimenticata dalle topografie ufficiali è foderata di libri clandestini, miei e di un mio collega: temo sempre che venga scoperta...).

I libri rimandano allo studio ma nel contesto attuale l'abitudine alla lettura diventa sempre più difficile da coltivare, almeno nel senso tradizionale. A tuo parere, esiste il rischio di una perdita di profondità nella lettura su dispositivo elettronico? Come potrebbero agire i docenti che desiderano potenziare l'uso dell'ebook tra gli studenti? quali attese lecite potrebbero avere?

 

Credo che per cercare di rispondere a questa domanda si debbano distinguere forme diverse di lettura. Sarebbe infatti inesatto dire che oggi leggiamo meno che in passato: in verità anche le giovani generazioni leggono, e leggono moltissimo; il problema è capire cosa esattamente leggono. All’interno di un ecosistema comunicativo che è oggi prevalentemente digitale, le forme di testualità complessa e articolata – e in particolare la forma-libro – perdono terreno rispetto a forme di testualità più frammentate e granulari. I siti web, i post di un blog, i messaggi di stato sui social network, gli SMS, le mail, i tweet, sono tutti esempi di testi brevi e con bassa complessità strutturale. Leggiamo meno libri, ma leggiamo moltissimi testi frammentati. Questo porta in particolare le giovani generazioni a sviluppare forti competenze – sicuramente migliori che in passato – nel movimento orizzontale fra informazioni granulari, ma a perdere o indebolire le competenze legate alla produzione, comprensione e gestione di informazione ad alta complessità verticale.

Va detto però che la granularità non è una caratteristica necessaria del digitale. Il digitale è solo una codifica. L’informazione digitale può essere frammentata e granulare, o complessa e strutturata. Ma è inevitabile, credo, che in un ambiente comunicativo nuovo si parta da contenuti più semplici. Nel mondo digitale siamo ancora all’età dei primi insediamenti urbani, dell’artigianato, del commercio. Non siamo ancora arrivati all’età delle cattedrali. Il vero obiettivo, dunque, è la riconquista della complessità, anche nel mondo digitale. Sarà questo il compito delle nuove generazioni, e a questo compito dobbiamo prepararle. Per questo anche i libri elettronici – che portano nell’ecosistema digitale l’eredità della forma-libro, e dunque di una testualità complessa e strutturata – possono aiutare. Così come possono aiutare altre forme di complessità tipicamente digitali: alcuni videogiochi, ad esempio, hanno un’enorme complessità e sono molto più vicine ai libri di quanto si potrebbe pensare. O Wikipedia: se la si conosce e la si usa bene, Wikipedia può essere una straordinaria palestra di scrittura, di negoziazione redazionale, di organizzazione dei testi.

Gli insegnanti dovrebbero abituarsi a muoversi in questo panorama sicuramente articolato, proponendo la lettura dei libri come un’attività che può arricchire l’ecosistema comunicativo delle giovani generazioni e non come una sorta di alternativa nostalgica.
 

Nella scrittura narrativa per la lettura su ebook, cambiano le modalità espressive? Esiste qualche particolare tipologia di testo che si adatta meglio al formato digitale?

 

Credo che, paradossalmente, la forma di testualità che può guadagnare di più dal digitale sia la saggistica e non la narrativa. Le prime esperienze di e-book aumentati – ancora per molti versi parziali e insoddisfacenti – funzionano meglio in ambito saggistico, attraverso strumenti come la visualizzazione dei dati e l’integrazione di contenuti multimediali. La costruzione di testi narrativi multimediali, al contrario, non sembra per ora funzionare troppo bene: il sovraccarico informativo legato alla multicodicalità e/o all’ipertestualità rende assai più difficile l’immersione nella storia.

Quel che invece può funzionare anche con la narrativa è l’arricchimento non già del testo o dell’operazione di lettura in sé, ma di quello che potremmo chiamare l’”intorno” della lettura: le attività che accompagnano la lettura. La lettura, di per sé, è un’attività assolutamente individuale che però rimanda immediatamente a un contesto sociale: leggiamo libri di cui abbiamo letto o sentito parlare, quando leggiamo qualcosa vogliamo condividere con altri le nostre impressioni, cerchiamo informazioni aggiuntive, cerchiamo altri testi. Credo siano questi aspetti, da un lato sociali e dall’altro intertestuali, che il digitale può aiutare a sviluppare e contemporaneamente almeno in parte trasformare.
 

Potresti rievocare il tuo primo incontro con Bergoglio, nei lontani tempi di studio in Germania? Ti colpì qualcosa in particolare di lui?

 

Ho conosciuto Padre Bergoglio nella metà degli anni ’80 – credo fosse il 1986 – quando grazie a una borsa di studio ho frequentato per tre mesi il Goethe Institut di Boppard, in Germania, per studiare il tedesco. Padre Bergoglio era anche lui fra gli studenti del Goethe: più anziano della maggior parte di noi – aveva una cinquantina d’anni – e quindi certo più riservato, ma simpatico, molto alla mano, attivo e vivace. Scambiava ricette di cucina, partecipava alle discussioni: ne ricordo una legata alla lettura di un testo di Hans Küng sulla teologia della liberazione; immagino fosse stato scelto dalla nostra insegnante proprio perché poteva essere interessante discuterne anche con lui. Certo, io lo ricordo bene perché – sia per l’età sia per il fatto di essere un sacerdote – era uno studente un po’ diverso dagli altri, ma non credo proprio che lui si ricordi di ciascuno dei suoi compagni di corso al Goethe. Ho letto però che in una sua visita recente in Germania ha incontrato la signora presso cui aveva abitato a Boppard: anche lui, come tutti gli studenti, era alloggiato presso una famiglia del posto.

Renata Adriana Bruschi

 

Buenos Aires, 16 marzo 2017

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